IL TRONO DISARMANTE di KESTER Cristóvão Estavão Canhavato
IL TRONO DISARMANTE di Kester - Cristóvão Estavão Canhavato
Durante una visita al
British Museum di Londra nella zona all’arte contemporanea dedicata all’Africa,
Oceania e Americhe c’è un’opera di Cristóvão Estavão Canhavato chiamata Thron of weapons, (2002) che mi ha
particolarmente colpito. L’opera
fu selezionata con altre cento dal museo londinese con l’importante compito di
rappresentare i vari paesi del mondo contemporaneo. Canhavato è un artista nato
a Zavala, nel sud del Mozambico, il 15 luglio del 1966 e da bambino assistette alla
decolonizzazione del suo paese dal Portogallo conclusasi nel 1975. L’ex-colonia
si dichiarò subito marxista e leninista affiliandosi alla politica comunista
dell’Unione Sovietica che la sostenne, economicamente e militarmente, fino alla
guerra civile (1977-1992) generando due fazioni contrarie e causando più di un
milione di vittime. Dopo la caduta del muro di Berlino il comunismo perse le sue
aderenze anche nelle politiche estere e non inviò più armi in Mozambico. Nel
1998 lo scultore entrò a far parte della cooperativa artistica chiamata
Associação Núcleo de Arte di Maputo col nome di Kester.
Il trono, noto come segno di potere nella storia,
realizzato in tutti i modi e con tutti i materiali possibili, si presenta così provocatorio
e volutamente scomodo come non mai. Spicca la sua unicità di sedia costruita
assemblando e saldando armi dismesse dalla guerra civile. Le armi furono fornite dell’organizzazione
cristiana che nel 1995 si occupò del progetto TAE - Transformaçaõ de Armas em
Enxadas - ovvero della trasformazione delle armi in utensili da lavoro per aiutare
la popolazione. Gli AK-47, fucili d’assalto, e le pistole
provengono proprio dal Portogallo, dall’ex Cecoslovacchia e dalla Corea del
Nord, oltre che dall’Unione Sovietica. Importante per la realizzazione del
trono è l’AK-47, che è presente nella bandiera mozambicana insieme con una
zappa, un libro e una stella.
Il riciclo non è solo materia prima nella
creazione di un artefatto, ma in questo caso specifico, denuncia la brutalità
della guerra, un’altra tra le tante nel mondo che arricchiscono i trafficanti
di armi e distruggono i popoli. Una forma di riciclo etico. La freddezza del metallo si unisce all’imbarazzo suscitato
da quelle armi, strumenti di morte, inibendo ogni altra sensazione positiva
nello spettatore. Un trono che ricorda una sedia elettrica o della tortura,
dolorosa e catartica allo stesso tempo.
Dopo Kester altri artisti come Goncalo
Mubanda (2012) hanno seguito il suo esempio. Visto il grande impatto sul
pubblico suscitato riciclando armi dismesse, il gruppo di artisti di Maputo
ricevette nel 2005 sempre dal British la commissione per un’altra opera più monumentale:
l’Albero della Vita, accompagnato da
una serie di scatti fotografici che ne documenta la giocosa realizzazione da
parte degli abitati dei villaggi vicini. Quanto ci appare lontana l’arte
africana che si affermò inizialmente in occidente come novità nella collezione
privata di maschere e sculture che l’artista Maurice de Vlaminck espose nella
sua casa di Parigi nel 1904.
Non più souvenir esotici dai paesi outre mere ma opere d’arte, linfa vitale
per il mondo artistico che cercava la purezza nei paradisi terrestri. La storia
dell’arte le riconosce così a pieno titolo e le svincola dalle funzioni
magico-religiose per le quali erano state realizzate. La mostra dell’arte negra fu inserita per volere di
Mussolini nella XIII
Biennale di Venezia come fosse un trofeo delle colonie italiane. Nello spazio
FM di Milano ne è stata ripresentata la ricostruzione, così com’era stata
proposta a Venezia, con il titolo Il
Cacciatore Bianco, la mostra è terminata il 3 giugno scorso. Anche la Fondazione
di Louis Vuitton di Parigi fino al 28 agosto, espone opere contemporanee
di artisti
africani, che operano soprattutto nei loro paesi, con un ricco calendario di
manifestazioni del nuovo cinema africano. La LVII Biennale di Venezia ha
aperto quest’anno le sue porte al continente nero con un numero esiguo di opere
deludendo, inizialmente da una prima analisi, le aspettative ma rivelando inaspettatamente nel padiglione statunitense dell'artista Mark Bradford le opere filo-africane, sconfinando, se così si può dire, dalla nazionalistica America di Trump. Gli artisti africani, particolarmente attivi, sono convinti
che attraverso l’arte possano ottenere un riscatto sociale e rivendicare l’identità
del loro popolo definitivamente riconosciuto come sovrano e al pari del resto
del mondo. Inoltre, il loro intento si propone di dissociare l’arte africana dal
concetto negativo di terzo mondo, riqualificandola come merita!